MM-P
Negli anni Sessanta, dopo gli studi liceali, ero entrato come studente al Corso Superiore di Industrial Design a Venezia, il primo del suo genere istituito in Italia a livello sperimentale, con l’obiettivo di formare dei giovani designers per le grandi marche veneziane dell’industria del vetro.
La scuola a livello universitario fu all’origine della successiva nascita degli Isia parificati alle Accademie di belle Arti. Purtroppo venne chiusa nel 1972 per la mancanza di fondi ma soprattutto per l’ignavia del Ministero della Pubblica istruzione che non volle comprendere l’importanza formativa di quell’esperienza unica in Europa, dopo la chiusura nel 1968 della Scuola di Ulm con la quale noi studenti eravamo collegati per i piani di studi e per le ricerche sui materiali e le nuove tecnologie.
Le materie d’insegnamento dedicate tra le altre alla teoria della forma, alla percezione visiva e in più in generale alla cosiddetta “cultura del progetto” finalizzata alla progettazione di oggetti e di sistemi organici alla loro produzione di serie, furono importanti per la nostra formazione unitamente alle materie teoriche come la critica d’arte, la storia del design e della Bauhaus, il visual design e la fotografia; quest’ultima intesa come sperimentazione visiva in alternativa alla dogmatica celebrazione del foto reportage di stampo bressoniano allora in voga nei circoli fotografici italiani.
Indimenticabili le lezioni magistrali di Silvio Ceccato dedicate ai primi studi di Cibernetica che egli stava conducendo da alcuni anni che erano tra le basi scientifiche della robotica.
Infine con l’architetto Angelo Mangiarotti si realizzarono i primi modelli in scala dei sistemi costruttivi nella prefabbricazione edilizia con gli studi sui giunti di Wacksmann e con il designer Andries Van Onck, l’illuminotecnica e il metadesign. In entrambe le discipline era necessaria la conoscenza dei materiali prodotti in chiave industriale.
Questa breve premessa si è resa necessaria a distanza di tanti anni perché indica un percorso formativo che alcuni della mia generazione hanno avuto la fortuna di compiere in una Scuola sperimentale alternativa alle Accademia di Belle Arti, in un Paese come il nostro che stava assumendo un ruolo primario nella cultura europea del design e delle arti plastiche e visuali che negli anni Settanta trovarono il loro culmine nei grandi protagonisti del design e del concettualismo italiano in simbiosi con il pensiero scientifico e le nuove tecnologie dei materiali destinati ai vari usi come quello degli artisti del Gruppo Enne di Padova che frequentavano il mio stesso corso di progettazione alla Scuola di Venezia.
Erano gli anni in cui Gianni e Joe Colombo operavano in ambiti diversi ma integrati tra loro e in contemporanea con gli artisti dell’arte cinetica del Gruppo T di Milano con Giovanni Anceschi autore tra i pochi italiani ad aver frequentato la Scuola di Ulm in Germania diretta da Tómas Maldonado.
Tra i tanti libri pubblicati in quell’epoca ne voglio ricordare uno in particolare che passò quasi inosservato a causa di una mancata o debole conoscenza di quella area della filosofia del Novecento denominata “Fenomenologia” che costituì la parte essenziale della nostra formazione culturale. E’ l’ultimo incompiuto di un filosofo importante come Maurice Merleau-Ponty il cui titolo emblematico era: “Il visibile e l’invisibile”, pubblicato da Gallimard a Parigi nel 1964 e nel 1969 da Bompiani.
Dopo tanti anni l’occasione di questo recupero è stata la mostra ideata da Agustin Sanchez dal titolo: “Raccontare l’invisibile” che vede la partecipazione di giovani autori tra i quali alcuni miei ex studenti e tutti provenienti dalle Accademie di belle Arti di Bergamo e di Brera di Milano.
Il vedere il mondo attraverso “Il visibile e l’Invisibile” e cercare di raccontarlo, è un atto di coraggio che ogni artista ha da sempre sentito profondamente come esigenza di ricerca. Il raccontare una apparente ambivalenza sapendo che l’una interpretazione dipende dall’altra e viceversa e che non ci sono dogmi risolutivi, ma pensieri in movimento in cui la conoscenza del vedere deve fare sempre i conti con la fisicità percettiva del nostro corpo e delle emozioni che lo abitano. Non è semplice ma è l’insieme del problema che costituisce una materia da comprendere e da seguire nel tempo senza nessuna certezza di verità assoluta se non quella ricercata da Merleau-Ponty cnel suo avvicinarsi ad essa.
Nella prefazione a “Segni”, pubblicazione coeva alla stesura di “Il visibile e l’invisibile” l’autore scrive:
“ Nessuna cosa, nessun lato della cosa si mostra se non nascondendo attivamente gli altri, denunciandone l’esistenza nell’atto di nasconderli. Vedere è, per principio, vedere più di quanto si veda, accedere a un essere di latenza. L’invisibile è il rilievo e la profondità del visibile, e il visibile non comporta positività pura, più dell’invisibile”.
….”Secondo Merleau-Ponty, quella che egli chiama “Visibilità” non è circoscritta all’insieme dei visibili, ma comprende altresì le dimensioni, le linee di forza, gli scarti che essi obliquamente suggeriscono in quanto loro alone di invisibile, il quale risulta così non assenza assoluta, ma assenza quasi presente” (Mauro Carbone, p.11).
Penso sia utile a me stesso, ma soprattutto a coloro che hanno lavorato intensamente per questo evento l’aver indicato un filosofo come Merleau-Ponty in particolare con questo testo che non riuscì a vedere pubblicato prima della sua morte avvenuta il 3 maggio del 1961.
Questa mia breve testimonianza non vuole entrare nel merito delle motivazioni enunciate dai singoli artisti che spero saranno pubblicate con un breve ma significativo testo introduttivo di Agustin Sanchez che da anni si dedica al rapporto Arte & Scienza e che ha avuto il merito di collegare la formazione artistica dell’Accademia con eccellenze tecnologiche come il “Kilometro Rosso” a Bergamo e il CNR a Milano.